sabato 2 novembre 2013

The doctor is in

Quando avevo quindici anni il medico mi disse che soffro di gastrite.
Ne soffrivo cioè allora, ne soffro adesso. Col tempo ho appreso che “soffrire” è l'accezione di “incurabile” che può essere meglio accettata nell'ottica cristiana occidentale.
Filosofia: un male necessario affinché il bene possa avere senso, o non necessario, comunque presente. Un concetto metafisico che galleggia al di sopra dell'umana capacità di eradicazione.
C'è della teologia anche nella medicina, penso.
Altrimenti dovrei pensare che si sia trattato solo di insensibilità, dire ad un ragazzino di quindici anni che dovrà trascinarsi un problema per il resto della sua vita.
Prendo dei farmaci.
Niente di che: il progresso scientifico si concretizza nell'arginare il problema. Diminuire più possibile il dato statistico delle crisi. Quando non basta, bisogna fare i conti col male, punto.
Carne contro morale: scontro impari, no?
Soffro, ogni tanto.
Per esempio quando dormo. Sistemi neuronali processano il disagio fisico prima in sogno, poi programmano il risveglio. Seduto sul letto sento una pappa calda salirmi languida fino ad accarezzare l'epiglottide. Sul fondo del palato, vicino alla gola, ingoio una massa di quello che sembra essere catarro, o bolo, o chimo, un pastone insensato di molecole semi-scomposte.
Un ronzio da montagne russe mi riporta al sonno perché non succede nient'altro. “Soffrire” è particolarmente calzante nel caso di una guerriglia tra il corpo e la malattia. È questo il caso.
Una parassitosi prima fisica, poi psicologica, la consapevolezza e l'attesa di soffrire.
Si comincia a soffrire poi in sottofondo, i picchi sono routine, conferma, ufficio. Timbrare il cartellino per sapere che la gastrite è ancora al caldo della tua pancia.
Mi capita di svegliarmi se sto male. Oppure no.


Quando ho sentito il diaframma arroventarsi stavo dormendo. Io sono corpo e mente?
Inviluppato nel sogno ho nutrito solo la vaga percezione di una marea ribollente, gialla, che esplodeva nel chakra addominale. Uno schizzo di acido sfrigolante che disegna un arco, come una perdita d'olio da una latta, spandendosi sull'eco di un terreno fisico che si è fatto non-luogo. Il mio corpo parla da un'altra stanza, abbastanza forte perché il processo inconscio in corso si dissolva come fumo di sigaretta attraversato da una mano.
Stranezze: parte un nuovo processo inconscio. La memoria si assesta nella cornice di una stanza, nude pareti di pietra grigia come quelle di un casale, un effetto inconsapevolmente rustico, non ricreabile da coreografi e designer di interni. Dimentico cosa stia succedendo.


Lei è seduta sul letto e mi sorride. Con la mano batte delicatamente, una volta sola, sulla trapunta rigonfia. Io mi siedo accanto a lei, e con naturalezza affondo il viso nell'incavo tra la sua spalla e il collo. Chiudo gli occhi e inspiro. In una dimensione attigua il super-io si irrigidisce nel raccapriccio per quello che sto facendo: proietta una fallace costruzione di inopportunità sociale, infrazione di regole di civile convivenza, invasione di spazi fisici condannabile da sguardi di disapprovazione e dal codice penale. Lei invece lascia che la mia fronte saggi il biondo sottile dei suoi capelli, e passa una mano tra i miei, dalla rasatura sulla nuca fino alla sommità del capo dove si fanno più folti.
Al buio degli occhi chiusi il suo odore risale per le narici e invade il lobo frontale, gocciolando freddo nella trachea e nell'esofago, gelo primaverile nella fornace del mio stomaco.
Persino qui, persino dove riesco a realizzare una tale mancanza di autocontrollo da dover dare corpo ad un benessere che attende solo alla mia volontà, lei è ancora la desiderata, l'innamorata di un altro. Senza smettere di sorridere scosta di poco il capo, una distanza appena sufficiente da non poter essere colmata con una scatto del mio che vorrebbe cercare un bacio. E infatti non mi muovo ancora, per minuti, passato il calore febbricitante della gastrite alla mia nudità psicologica si sovrappone una vergogna infantile per un atto che le ho empaticamente trasmesso di voler compiere. Quando sollevo la testa e incontro le sue iridi chiare, sassolini screziati di muschio, dico


Mi piace stare con te. È come stare con una mamma

Il costume onirico e quello analogico si fondono in una dichiarazione che avrebbe fatto la gioia di Freud. Lei dice qualcosa che ora non ricordo più, la voce resta per un secondo a fluttuare nella stanza immersa in un lucore uggioso, novembrino.
Fuori dalla finestra il panorama è un fotogramma agreste di cielo color lime su cui, in primo piano, sono ritagliate foglie di vite blu profondo, e un prato di violento azzurro che si arrotonda in forma di collina oltre il mio campo visivo.
Lei è un inquadratura a mezzo busto, indossa una giacca di lana smeraldo con i bottoni neri chiusa fino alla gola. La luce le si rifrange addosso come su un corpo bagnato, nell'oscurità rassicurante che potrebbe avere la pietra di un ponte, laddove l'acqua arriva a lambirlo: persino il bianco della pelle è sporco, ingrigito in una tridimensionalità che lo rende ancora più vivido e desiderabile.


Lo spazio si accartoccia verso un punto di fuga, strozzandosi fino a ribaltarsi in quello reale.
Mi sveglio: la luce si assottiglia per filtrare tra i fori delle tapparelle, sono supino tra le lenzuola disordinate ai miei piedi. Le dodici e un quarto, e io sto bene. Riprende una silenziosa attesa del martedì.


sabato 24 agosto 2013

Ine(r)zie

Guardandomi allo specchio, ogni giorno ero sempre più magro.
Più passavano i giorni e più ero magro.
C'è da dire che forse era colpa del fatto che mi bucavo. Ogni giorno mi bucavo, il giorno dopo ero più magro.
Mi bucavo così tanto che ho dovuto mettere dei buchi nuovi alla cintura, per stringerla.
Le era venuta la depressione, penso, a furia di vedere che mi bucavo: aveva cominciato a bucarsi pure lei. Poverina.

Io, quando scrivo, mi vengon di quelle fissazioni.

Io, di mestiere faccio lo scrittore, quando scrivo, mi vengon di quelle fissazioni.

L'altro giorno che avevo finito di scrivere un romanzo breve, per esempio, non era di giorno, era di notte, l'altra notte che avevo finito di scrivere un romanzo breve, che poi, a guardarlo bene, non era mica un romanzo breve, era più un racconto lungo, a guardarlo bene, io questo racconto lungo avevo iniziato a scriverlo che stavo d'un male, questo racconto lungo, solo che poi sono passati dei mesi, io non ci stavo più, d'un male.

Stavo d'un bene, invece.

Stavo d'un bene che a me, mi veniva difficile di ricordarmi com'era, stare d'un male, e però volevo finire di scriverlo, il mio romanzo breve, che era un racconto lungo, a guardarlo bene, volevo finire di scriverlo perché La Rossa doveva leggerlo, e La Bionda anche, ci tenevo che lo leggesse, e La Mora gliel'ho detto, che scrivevo un romanzo breve, mi ha chiesto di farglielo leggere, quando lo finivo, solo che io, stavo d'un bene, che non ero mica più capace, a scrivere le cose come prima, quando stavo d'un male.

Solo che io, dovevo finire di scrivere, ho finito, com'è come non è, diciamo, mi ero rotto anche un po' le balle, io, di aspettare di stare d'un male, l'ho finito di scrivere, quel romanzo breve che era poi un racconto lungo, a guardarlo bene, l'ho finito di scrivere, gliel'ho fatto leggere.

Poi ti dico che ne penso, ha detto La Rossa.

Poi ti dico che ne penso, ha detto La Bionda.

Poi ti dico che ne penso, ha detto La Mora.

Io, non c'entra niente adesso, io quando parlo con mia madre basta un niente che ci litigo.
Io, quando parlo con mia madre, lei mi dice delle cose, che basta un niente e ci litigo, mio padre pensa che siamo tutti pazzi, a casa.

L'altro giorno, per esempio, non era di giorno, era di pomeriggio, l'altro pomeriggio mia madre, Raccogli gli scarponi, mi ha detto, io mi son messo a cercarli per la stanza, questi scarponi, non c'erano mica per la stanza, Quali scarponi?, ho detto io, che lei me li ha indicati poi, solo che non erano mica degli scarponi, erano delle ciabatte infradito.

Ecco, io bastano queste cose che con mia madre ci litigo.
Non sono mica degli scarponi quelli, perdio.

Io, quando scrivo, mi vengon di quelle fissazioni.

Non mi hanno più detto niente, del mio racconto lungo, La Rossa, La Bionda, La Mora, non mi hanno detto niente, che io ieri mattina, era proprio ieri mattina, io l'ho riletto, quel racconto lungo, e si vedeva proprio, all'inizio, che stavo d'un male, e alla fine, che stavo d'un bene, e niente, eran due cose diverse, che io pensavo di parlare di scarponi, e invece eran ciabatte infradito.

Stavo d'un male, poi.

Ho guardato il computer, stavo d'un male, poi, avevo capito tutto.

Ma vaffanculo, ho pensato.


sabato 15 dicembre 2012

Un cucchiaino di merda


Avete sentito del massacro in quella scuola del Connecticut? Ventisei vittime, e venti erano solo bambini tra i cinque e i dieci anni. Nel prossimo Angelus il Papa parlerà di come gli Stati Uniti confermino di essere la civiltà dei grandi sprechi.

“Vorrei poter fare arrivare il mio messaggio a più persone” ha commentato il Santo Padre “ma in 140 caratteri non ci stanno abbastanza doppi sensi”.

Questa storia mi ha lasciato davvero sconvolto. Quella del papa su Twitter, intendo.
Non si può non ammettere che i tedeschi siano gente piena di sorprese: un giorno ti spiegano i vantaggi di una stufa a pellet e il giorno dopo sono lì a benedire il presidente ugandese per l'introduzione della pena di morte come sanzione per il reato di omosessualità.

Il reato di omosessualità. Ma ci rendiamo conto? Dopo una tale modernizzazione mi sarei aspettato una crociata contro sceneggiatori e attori di web series su YouTube.

Almeno lì avrebbe avuto la mia approvazione.

Questo nuovo Papa comunque comincia a piacermi: prima o poi lo beccherò mentre fa il culo ai valdesi su playstation network.

Il presidente Obama si è comunque dimostrato contrario alla decisione di Benedetto XVI: l'approvazione della legge “Kill the gay Bill” costerà all'Uganda la sospensione degli aiuti in favore di Kampala. E niente playstation.

Tra l'altro, non fa ridere?

No, non il fatto che una nazione in cui se il junk food vuole ucciderti può comprarsi una .44 magnum, ma il nome della legge. “Kill the gay Bill”.

Mi fa pensare al titolo di un film di Tarantino.
Solo che in questo Uma Thurman vuole ammazzare David Carradine perché si è inculato suo marito il giorno prima del matrimonio.
Un'epica battaglia finale a colpi di palline ben-wa.

Cosa ci posso fare? Sono una persona dalla fervida immaginazione.
Ecco cosa avrei dovuto dire allo psicologo infantile.

Voi pensate che il mondo stia finendo, vero? Che pezzo per pezzo le cose si sgretolino, e questo ammasso di atomi senza valore nell'universo sparisca per sempre. C'è un piacere malsano nei vostri conti alla rovescia, ma quando pensate al sipario cosmico che sta per calare sull'esistenza della scimmia, pensate che non potrà essere ora. Perché quando le cose vanno male, possono solo peggiorare. Anelate la fine di una tortura, che come in un tragico scherzo, non arriverà.
Quello che vi spaventa davvero è non lasciare traccia, il salto nel buio pronto ad inghiottirci.
Per questo ci sono tanti #faiunadomandaalpapa, così tante fan page, così tanto orrore ogni volta che restate soli con voi stessi. E dio non voglia che lo siate mai.
Ma lo siete.

Ah, poi ho anche letto che è morto Riccardo Schicchi, ma a tutti coloro che lo piangono dico solo: tranquilli, lo rivedrete. Nel nostro Paese i morti non finiscono nella tomba. Si candidano.

venerdì 7 dicembre 2012

Atrax Robustus


<<Io sono Compè Anansi, 
figlio di Nyame
e Re di tutte le storie>>


Ho lasciato apposta sulla scrivania un intero faldone delle cose che non sono riuscito a scrivere durante questi anni. La pila è piuttosto alta, e l'ho trascinata abbastanza lontana dal bordo quando era diventata troppo pesante per sollevarla senza che crollasse.
A guardarla da seduti sul letto, lo schieramento affilato dei margini è distorto da una complicata orogenesi di fogli di altri formati. Agende e calendari e taccuini da ufficio mutilati per nobile causa di un fugace conflitto a inchiostro, che poi è il capriccio dell'appunto.
Credo che non potrò pensarci domani.
Mi metto in piedi e impugno la mazza da baseball, torcendomi di lato per preparare la battuta della mia vita. Il fianco della libreria cede in uno schiocco sordo che si allunga fin negli angoli dove la luce della lampada non riesce ad arrivare. Cadono frettolosi a decine, per casa editrice e autore, e non sono gli uccelli o i pesci di Guy Montag, ma tessere e mattoni fragili che si spiegazzano sul parquet da quattro soldi. Ancora e ancora e gli scaffali s'impennano con la furia dell'ultimo, innaturale movimento, cadendo dai supporti d'acciaio fin sul fondo del mobile, in un naufragio che fa un baccano d'inferno. Salto all'indietro appena in tempo prima che tutto crolli lungo centosei centimetri per ventotto spiaccicando costole e copertine cartonate, e un'intera collezione dei miei modellini d'areoplano. Resto qualche minuto fermo a guardare la scena. Non è la mazza lo strumento, ma la mia volontà di decidere questa nota incredibilmente inopportuna nel bel mezzo dell'armonia matematica di parole giuste che io non conosco. Sono bastato soltanto io e già non ci sono più. Senza fretta preparo il borsone, con i jeans ripiegati sul fondo e solo una felpa, per far spazio alle scarpe da ginnastica nella busta di plastica bianca, poi lo sistemo vicino alla porta della stanza. Appena lo afferro per le maniglie sento distintamente ogni cosa ammucchiarsi senza ritegno su quella che le sta sopra, sotto, o affianco. Pazienza.
Colpisco dal basso verso l'altro tra le ante, aperte come braccia arrendevoli, e una pioggia nera di grucce si disintegra sopra tutte le camicie e giacche e t-shirt che ho deciso di abbandonare qui. Colpisco finché la vernice non lascia posto alla tragica verità del legno molto più vecchio di quanto credessi, finché la parete interna non regge più e lui si accascia completamente su sé stesso.
Sollevo una danza di schegge trasparenti dalle finestre, nell'atmosfera, devo dire, anche piuttosto coreografica dell'intonaco frantumato che disegna ghirigori attorno alla lampadina dell'abat-jour.
Una volta finito poso delicatamente la mazza a terra e faccio un giro su me stesso.
Arrivo alla porta, riprendo il borsone, mi giro a guardarmi indietro per qualche secondo, chiedendomi se non ci sia qualcosa che dovrei cercare di recuperare, fra le cornici e la scatola delle lettere, che si sono srotolate in un volo di gabbiano quasi fino a me, come se tentassero di chiamarmi per l'ultima volta. Poi esco in silenzio e chiudo la porta senza spegnere la luce. Passo dal bagno, tolgo il cellulare di tasca e lo butto nel water. Inzuppandomi una manica lo spingo più a fondo possibile, poi tiro lo scarico. La tazza borbotta di disappunto e non aspetta ad erompere in un urlo soffocato da un conato d'acqua, che si solleva come se ci avessi lanciato un'incudine. Per lo spavento finisco contro le piastrelle, ma poi mi affretto ad uscire perché il pavimento comincia ad allagarsi.
Attraverso il corridoio spento, passo dalla cucina. Lei è ancora legata.
Quando accendo la luce punta gli occhi sbarrati su di me ma non dice niente. Il bavaglio è ben stretto tra i denti.
La tuta da ginnastica è fradicia di sudore, forse per le imposte chiuse in pieno luglio.
Mi guarda, la guardo. Tende forte i lembi di tessuto che le assicurano i polsi alle gambe del tavolo senza emettere un lamento. Il rumore solitario del tavolo che batte sul pavimento mi ricorda quello di denti che si chiudono. Sul piano cottura, c'è ancora il barattolo con il ragno.
È un barattolo di quelli usati per le marmellate, con l'aracnide che saggia senza sosta l'interno delle pareti pulite. Le zampe fanno tic tic tic.
Poso il barattolo per terra, accanto al tavolo, abbasso la cerniera della sua giacca, le sollevo la maglietta. Ha la pancia chiara e piatta, in controluce spruzzata da una peluria appuntita che disegna un vortice verso il basso. Lei non mi guarda come se pensasse che la voglia stuprare.
Prendo il barattolo con il ragno e lo tengo sollevato per qualche attimo.
<Atrax Robustus> scandisco <Uno dei ragni più aggressivi al mondo. Viene dall'Australia. Nessuno riesce a spiegarsi perché il veleno di questo aracnide sia più efficace sulle scimmie che sulle sue prede naturali>.
Picchietto l'indice sul vetro.
<Sai cosa fa? Non lo sai? Te lo dico io. La tossina inoculata da un morso, e non è detto che morda solo una volta, apre il canale ionico del sodio, determinando un'attività neurale più intensa del normale> Sembra che stia leggendo un prestampato.
<Già pochi secondi dopo il morso il dolore diventa insopportabile. Prurito, irritazione, poi arrivano le prime contrazioni muscolari involontarie> svito metodicamente il coperchio. L'animale se ne sta buono in un angolo, aspettando come madre natura gli ha insegnato.
<Vertigini, nausea, lacrimazione profusa. La temperatura del corpo si alza, l'edema polmonare si fa più consistente. In genere anche se si sopravvive alla crisi, che dura circa tre ore, il rischio di morire permane per sei giorni>. Resto in silenzio ancora per qualche secondo, lei respira forte con gli occhi così fissi e sporgenti che sembra le siano scomparse le palpebre.
Capovolgo il barattolo e lo tengo sospeso sopra al suo ombelico.
Il ragno ci cade dentro senza errori. Butto il barattolo a terra, raccolgo il borsone e torno il corridoio. Dalla cucina arriva un piagnucolare attutito.
Infilo la chiave d'ingresso nella parte interna della porta, forzandola fino a deformarla completamente nella serratura. Il metallo segue la mia mano come una ragazza che gioca a fare la difficile, appena uno stridio.
Chiamo l'ascensore, richiudo la porta alle mie spalle. Per le scale fischiettano Tutta mia la città: le note scompagnate fanno a cazzotti con quelle del tg serale dall'appartamento di qualcuno che cena già a quest'ora.
Le porte si aprono con un rollare di cuscinetti a sfera su un piccolo binario. Ding!
Nella cabina c'è una coppia di anziani: lei ha uno yorkshire al guinzaglio che mi guarda con la lingua di fuori e la testa infiocchettata di rosa.
<Parte?> mi chiede il vecchio senza sorridere, approfittando del tremore del parkinson per indicare il mio borsone con la testa.
<Sì> sospiro io come se il bagaglio fosse molto più pensante di quanto non sia in realtà, mentre scivolo in mezzo a loro.
<Tutti al piano terra?> domando con un'allegria che sembra forgiata in anni di lavoro ad un villaggio vacanze.
<Tutti al piano terra>, chioccia la vecchia mostrando la dentiera.
<Molto bene>.

domenica 4 novembre 2012

Ti Con Zero


Un punto
un segmento
un raggio equidistante dal centro del cerchio
in cui mi trovo adesso
cioè un momento
una porzione
una frazione di tempo
un pezzo
come se parlassi di piombo o cemento
tanto il tempo è quello
uno strumento di cui non ho controllo o senso
a cui mi arrendo
col calendario sulla porta e l'orologio al polso
posso anche farne un blocco
e portarmelo al collo
lo consumerò quando avrò tempo
in tasca ho ancora minuti di martedì scorso
“cara devo andare al lavoro, corro!”
ci sarà tempo per consumare questo tempo che ho raccolto
per farci un disegno,
un ingegno,
un racconto
chiusi nel recinto dell'opportuno
del “mai troppo”
del “mai quando voglio”
vado in ufficio, avrò tempo al ritorno
per ora mi siedo al decimo piano del mondo
è l'undici settembre duemilauno
ora locale otto

lunedì 15 ottobre 2012

Neanche il tabacco


Allora oggi è successo che sono tornato a casa e avevo delle idee precise, delle idee tipo mettere a posto la stanza, anzi per prima cosa fare la pipì, poi mettere a posto la stanza, mandare una e-mail ad un professore, poi fare delle altre cose che non mi ricordo.
Queste altre cose che non mi ricordo è perché poi mentre scrivevo l'e-mail io ormai c'ho il vizio quasi compulsivo, come direbbe mio padre, di controllare Facebook. Allora rispondo al telefono, è Giulia, scrivo la mail, rispondo al telefono, è mia madre che vuole sapere se piove a Roma, scrivo la mail, apro Facebook.
Allora cos'è successo. È successo che su Facebook c'è questo ragazzo, un ragazzo che io veramente non è che ci avessi mai fatto più di tanto caso, cioè uno di quelli che ce li hai tra gli amici per un motivo o per l'altro che spesso con l'amicizia ben poco ha a che fare, allora c'è questo ragazzo dicevo, che ogni tanto vado a leggere se scrive dei pensieri, delle cose interessanti, perché a me è sempre sembrato uno molto sveglio e attento, forse anche di quelli che lo sanno di esserlo, svegli e attenti dico, e allora un po' se ne approfittano, ché poi tu chi sei per dirgli di non approfittarne, nel mondo di quelli che non sono né svegli né attenti, ma non perché devono poi fare i poeti, anche solo così, per giovinezza.
Insomma leggo quello che ha scritto questo ragazzo oggi, e ha scritto delle cose molto belle, molto intelligenti e vere, che ad usare queste parole per spiegarvi io già un po' vorrei farvi capire quanto mi sono sentito piccolo a stare lì a fare l'analisi delle parole, a vedere come erano state scelte, il ritmo e c'era tutta questa armonia crescente che ribolliva su su però con una lucidità che non è che te l'aspetti, a diciassette anni o giù di lì, se ripenso a quello che scrivevo io.
Era una cosa riguardo quel bambino che vicino Padova è stato trascinato via dalla polizia in una volante, davanti alla zia e agli amici, avevo letto un articolo sul giornale e poi altri commenti e pensieri, tutti uguali, giorni prima, e mi era venuto solo questo grande senso di niente che non sapevo bene cosa pensare come quando uno ti dice di tenere in mano una cosa un attimo e tu hai paura di romperla e allora stai lì fermo ad assicurarti di sentirla sempre tra le dita.
Ecco, poi a me la gente dice che mi svaluto, che mi avvilisco, che se scrivo bene, dice la gente, non è che un altro non può scrivere bene e non è che tutto sia una gara e poi io non scrivo più, no, è successa in realtà un'altra cosa, che io ho capito che questo ragazzo aveva dentro un fuoco, come ce l'hanno tutti, ma forse più forte, o più luminoso, e con le mani era riuscito ad irraggiare tutto intorno fino a me e quando me ne sono accorto non sono riuscito a fare più niente, mi sono dimenticato, menomale che avevo già fatto pipì e messo in ordine la stanza e inviato la mail, sono riuscito solo a scrivergli “bravo” e altre cose così. Cioè il punto è che secondo me ogni tanto è bello sentirsi piccoli o meravigliati di qualcuno e forse pure un po' invidiosi perché capisci delle cose che a dirle a parole certi sono bravi e vedi che magari hanno letto molto più di te, e tu invece avevi solo provato questo grande senso di niente e avevi altro da fare che scrivere. Insomma mi è piaciuto molto sentirmi in questo modo, che uno spera di non sentirsi mai, alle volte mi piace, e non ho fatto più nulla. Neanche il tabacco, ho aperto.

domenica 7 ottobre 2012

Assaggiare il nero


<<Sonno. Queste piccole porzioni di morte.
Quanto le odio.>>
Edgar Allan Poe

Warren Zevon è una rockstar. Debuttò sulla scena musicale nel 1969, ma il successo arrivò per lui solo dieci anni dopo.
Il disco con cui si rese noto al pubblico si chiamava Warren Zevon.
La traccia del disco Warren Zevon, della rockstar Warren Zevon, che ebbe maggior successo si chiama I'll sleep when I'm Dead.
La radio questo non lo sa. La radio è una macchina. Sta ferma, riflette la luce della lampada da tavolo come il guscio di un coleottero. Un insetto di plastica nera con le viscere di rame. La radio ronza senza comprendere
So much to do, 
there's plenty on the farm
I'll sleep when I'm dead
Saturday night I like to raise a little harm
I'll sleep when I'm dead 
La mano, quella è viva. Ha i gesti misurati del ragno. Prende la carta di giornale, una singola striscia, la solleva fino alla scodella. Quella finisce quasi del tutto in una mistura di acqua, gesso, colla. Beve, viene tirata su.
Dalla striscia, la mucillagine goccia pigramente nella scodella. La mano si scuote, sembra tenere un pesciolino appena pescato. Applica la striscia ancora umida, ci preme sopra la stecca di un ghiacciolo. Il legno rimane incollato.
Lei si chiama Kristen Parker. Il volto tracciato dalla penombra racconta sedici anni di bellezza nordamericana. L'oscurità lo lambisce appena, si ritira dietro l'attaccatura dei capelli senza sfiorare la curva morbida degli zigomi.
Il buio conosce altre vie, e le si è insinuato dentro la nuca. Ha premuto, sin ad arrivare dall'altra parte, scavandole un fossato di occhiaie che inghiotte il bianco della pelle. Nel pozzo fondo delle iridi la luce ha poco più che un guizzo.
Tutto il resto, dalle spalle in giù, è immerso nella vestaglia. Il cotone le cade addosso come il silenzio della stanza, indifferente alle parole di Warren Zevon.
La stanchezza è un'infezione che le fa girare la testa. Non la sta ammaliando, non le lancia la risata suadente dall'altra parte del corridoio della coscienza. Le tira giù la fronte in un anelito disperato.
Dormi.
Non può. Con sforzo titanico solleva la volta dei sogni che le preme sul cranio. Serve più rumore, abbastanza da coprire i pensieri. Ruota la manopola del volume sulla radio, e il suono brulica su ogni cosa.
Well, I take this medicine as prescribed
I'll sleep when I'm dead
It don't matter if I get a little tired
I'll sleep when I'm dead
Può prepararsi da sola il tempo di cui ha bisogno. Eccola, la medicina. Il cucchiaino che tintinna in un barattolo di caffè, uno sfarinarsi amaro sulla lingua. Diet Coke, un sorso, tutto viene trascinato giù con un singulto. Lo zucchero le brucia la gola: nero su nero che scivola dove il corpo abbandona la luce. Giù per lo stomaco cieco la mistura di Galeno.
Un'altra striscia di carta si appiccica accanto alla precedente.
Gioca a braccio di ferro con sé stessa. Il sonno rimonta in una marea che si infrange dietro gli occhi semichiusi. Non adesso. Nessun dubbio amletico, morire o dormire: qui la simmetria dei termini è così perfetta da darle i brividi.
La porta della stanza si apre, e come ad un segnale a teatro ogni comparsa decide di ritirarsi dietro le quinte. Il buio, il sonno, ogni cosa fluttua in un punto della stanza lontano da lei, come a volersi rendere estranea ai fatti. Non c'è niente: solo una ragazza in vestaglia seduta al tavolo.
Soltanto la radio continua a gracidare stupidamente
I'll sleep when I'm dead
So much to do, there's plenty on the farm
I'll sleep when I'm dead
Saturday night I like to raise a little harm
I'll sleep when...
Elaine Parker spegne la radio con uno scatto rabbioso del polso. Warren Zevon tace.
Lei si erge altera. Il frutto maturo della femminilità, dipinto di seta blu. Il tessuto le carezza i fianchi, è una lingua audace che dal seno le sfiora le caviglie.
“Ma sei matta? Sveglierai tutto il vicinato!”
Kristen fa finta di non sentire, o forse non sente davvero. I suoni e il loro significato arrivano in tempi diversi. Gli occhi sono tizzoni.
“Ciao mamma”
“Non mi ciaomammare. Che ci fai ancora in piedi? Sono le una passate”
Se c'è una virtù innata ad ogni figlio adolescente, è la lusinga. Far leva sul punto più debole.
“Pensavo di aspettarti”
L'istinto materno ammorbidisce i tratti del volto “Beh, adesso sono a casa, così puoi andartene dritta a dormire. Forza, angelo”.
Nessun angelo, dove il buio è più profondo del cosmo in cui si dice abbia sede il regno dei cieli. Meglio un'altra bugia.
“È tutto okay, davvero. Non sono stanca”.
Elaine taccheggia  fino al letto, scosta la coperta da sotto i cuscini
“Kristen, non incominciare. Lo sai quello che ha detto il tuo strizzacervelli...” sospira.
“È pieno di stronzate” si imbroncia lei.
Elaine rimane in piedi accanto al letto “Non ho intenzione di lasciarmi coinvolgere in una discussione con te, dannazione. Non stanotte. Adesso mettiti a letto”.
Mettersi a discutere? Per cosa, poi? Kristen stessa non riesce ad afferrare bene quello che vorrebbe spiegarle. Il materasso la accoglie carico di promesse. Elaine va verso la porta, avvicina l'indice all'interruttore della luce.
Dal fondo della stanza giunge una flebile supplica
“Mamma! Faccio ancora quei sogni orribili!”

Piccola nota a margine.
Quando il gruppo trash-metal Pantera realizzò uno dei suoi brani più famosi, Five Minutes Alone, il batterista della band, Vinnie Paul, spiegò in un'intervista da dove fosse venuta l'intuizione che aveva fatto nascere il pezzo.
Durante un live in California il cantante del gruppo, Phil Anselmo, aveva avuto una lite con un ragazzo del pubblico, e all'uscita del concerto, il padre del giovanotto aveva detto che se avesse avuto cinque minuti da passare da solo con lui gli avrebbe spaccato la faccia.
Per tutta risposta Phil Anselmo aveva detto che se lui avesse avuto cinque minuti da passare da solo con l'uomo, avrebbe dato fondo ad una serie di indicibili torture che aveva in mente per quello stronzo borioso. Dagli insulti che si erano lanciati aveva preso vita il pezzo.
Le cose non stanno così.
Phil Anselmo era un eroinomane ed un alcolizzato. Dopo un concerto andò in overdose, e fu solo grazie ad un tempestivo intervento dei medici del suo staff che riuscì a sopravvivere, ma per cinque minuti, il suo cuore e il suo cervello si fermarono completamente.
Non fu esattamente come dormire: Phil sprofondò in un luogo che era più in là del sonno, mosse i passi oltre una linea di confine che separa il nostro mondo da un altro, dove non c'è spazio nemmeno per la mente. Era rimasto cinque minuti da solo. Da solo per davvero.
Era lì che Kristen avrebbe voluto rifugiarsi.
Ma la nostra storia ha luogo nel 1987, Phil Anselmo è appena entrato a far parte del gruppo di Arlington. E tutto questo, Kristen non può saperlo.